A Siracusa va in scena la comicità greca

La satira della società negli "Acarnesi"

di Aristofane

di Marisa Musarra

Nell'ambito della Commedia Antica, che trattava questioni politiche, sociali, religiose, filosofiche e artistiche, Aristofane prende di mira spesso personaggi determinati, facendoli muovere in situazioni inverosimili o fantastiche, mediante una "dilatazione caricaturale" della realtà quotidiana.

Negli "Acarnesi " con cui vinse nel 425 a.C. il primo premio alle Lenee (feste invernali con agoni prevalentemente comici), l'argomento non è di per sé comico, ma fa nascere il riso per il modo in cui l'autore lo presenta al pubblico.

Protagonista della commedia è Diceòpoli, un contadino stanco della guerra, che si I trascina già da sei anni, e ormai desideroso di pace. Nel monologo di apertura Diceòpoli (in cui si identifica Aristofane) critica i meccanismi assembleari, la disonestà di quanti usano il denaro pubblico a fini privati (ambascerie in Persia che comportano spese e non danno alcun risultato) e l'inettitudine dei pritani, tentando di contrapporsi a quanto si sente dire nell'Assemblea. Quando si rende conto che obiettivo dell'Assemblea non è la pace, ma la continuazione della guerra, assoldando i ferocissimi Traci, decide di fare la pace per suo conto, mandando a Sparta come messo Anfiteo, esponente della classe aristocratica e quindi anch'egli propenso ad un accordo con il nemico.

Da Sparta Anfìteo riporta tre patti, simboleggiati in ampolle di vino: accoglie il patto più lungo che assicura trent’anni di pace e si avvia felice a festeggiare le Dionisie agresti. Mentre è intento ai preparativi viene però aggredito a sassate dai carbonai di Acame. Il coro dei carbonai "maratonomachi duri come querce" dal punto di vista sociologico non appartiene a una classe diversa bensì ad una posizione emotiva, opposta a quella di Diceòpoli: volontà feroce di massacro nei confronti di chi ha distrutto la loro terra e le loro case. Diversamente dal coro delle altre commedie sempre solidale con le idee dell’autore, il coro è inizialmente all'opposizione e solo dopo l'agone con il protagonista si converte alle ragioni della pace. Dopo la parabasi, nella quale c'è Fautoapologia del poeta, che ha cercato di aprire gli occhi agli Ateniesi per la scelta del "giusto" e a vantaggio di tutti e che difende la propria arte contro le calunnie di I Cleòne (che era il capo radicale alla testa della fazione democratica, dopo la morte di Pericle. Aristofane lo aveva già attaccato nei "Babilonesi") rientra sulla scena Diceòpoli e commercia tranquillamente: da un Megarese compra due fanciulle travestite da porcelline per una treccia d’aglio I e un pò di sale; da un Beota compra anguille e uccellini in cambio di un sicofante impacchettato come un vaso. (L'unica merce di cui Atene nel collasso totale dell'economia non aveva bisogno).

Nella seconda paràbasi il coro, ormai concordemente contro la guerra, inneggia alla trovata di Diceòpoli: subito molti cittadini corrono da lui per avere una goccia di "pace".

Diceòpoli scaccia, però, tutti i seccatori, tranne una sposina, che in quanto donna non è responsabile della guerra e, grazie all'unzione prodigiosa con il vino della pace, potrà godere degli amplessi del marito.

Diceòpoli si prepara quindi per un pantagruelico banchetto, mentre Làmaco (generale ateniese che Aristofane prende a simbolo della guerra) è costretto a partire per una spedizione militare in mezzo alla neve. Làmaco tornerà sorretto da due soldati, Diceòpoli ubriaco in compagnia di due ballerine.

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Nella commedia ci sono continue allusioni a persone, usi, fatti della realtà quotidiana. Aristofane si sofferma a sottolineare ora le noie dell'assemblea, in cui il contadino protagonista sbadiglia, si stira si strappa i peli, sospira e inveisce, ora contro l'atmosfera della guerra imminente, ora contro la scena pulcinellesca del Megarese che tira fuori da un sacco le bimbe-scrofette.

Innamorato dell'Atene "temporis acti", Aristofane ridicolizza spietatamente l'Atene del suo tempo lanciando frecciate contro Euripide (allusione malevola alla madre del poeta tragico, che faceva l'erbivendola; ironizza sui personaggi troppo miseri e infelici delle sue tragedie), contro i diplomatici sicofanti, il popolo sciocco, i predoni da strada, i militari.

Senza mezzi termini, la polemica è nei confronti dei fautori della guerra: Pericle è detto Olimpo con irriverente riferimento alla sua megalomania; la sua scelta di dare inizio alla guerra con Sparta viene espressamente criticata in quanto scelta di classe, a favore di alcuni ceti e a danno di altri; le cause della guerra sono individuate non solo in futili beghe con i Megaresi, ma soprattutto nel rapimento di tre prostitute, con l'intento di parodiare l'inizio della guerra di Troia e del dissidio Oriente-Occidente, come ci viene narrato da Erodoto nel primo libro delle Storie; l’allusione ad Aspasia, la donna amata da Pericle e accusata di influire in modo determinante e negativo sulla sua politica, rende la tirata di Diceòpoli-Aristofane sempre più pungente ed acre; infine la maschera comica più sarcasticamente tratteggiata è sicuramente quella del generale Làmaco.

Lo sguardo dell'autore è sempre beffardo tranne quando si posa sullo scenario campestre delle Dionisie rurali o quando si i perde nel desiderio delle gioie elementari della vita. (La servetta vogliosa che si rotola sull'erba).

La satira trova validi punti di forza, poi, nell'inventività linguistica, nei polisensi, nelle analogie ironiche. Il tripudio del Komos suggella al meglio la commedia, i forse disarticolata e caotica, ma tuttavia espressione di una insopprimibile aspirazione di pace, di una passione politica basata sull’onestà e stimolata dal conflitto i tragicamente deludente con la realtà contingente (gli accorati e continui ammonimenti di Aristofane cadono sempre nel vuoto) e dalla paura profonda di quella guerra che avrebbe segnato la fine della grecità classica.