Dopo quarant’anni si rappresenta di nuovo a Siracusa il potente dramma eschileo.

Storicità e modernità del Prometeo Incatenato di Eschilo

di Maria Rosaria Maisano

Il tentativo di "attualizzare" un'opera classica rappresenta sempre una operazione rischiosa, dal momento che da una parte si effettua una forzatura su un prodotto letterario che non viene più considerato nell'hic et nunc del contesto dell'epoca in cui è stato prodotto, dall’altra, si traggono conclusioni in genere soggettive, spesso frutto della ristretta esperienza individuale. Ne consegue che operazioni del genere, se tentate, debbono seguire due percorsi tra loro complementari: il primo che comporta un adeguarsi da parte nostra alla sensibilità del mondo antico, ed il secondo, successivo, che, in maniera inversa, rapporta contenuti e visioni dell'antichità al modo di pensare attuale.

Questo approccio alla produzione letteraria antica si dimostra imprescindibile allorquando si esamina una tragedia, che, in quanto opera composta per la comunità dei politai, va senz'altro da parte nostra ricollocata entro le precise coordinate storiche, culturali e sociali che la hanno espressa. E' vero che i contenuti della tragedia - che trattava di problemi attuali ricorrendo al patrimonio mitologico attraverso cui era possibile generalizzare ed universalizzare questioni ribattute nel presente -, già nell'antichità erano soggetti ad un processo di adeguamento alla realtà da parte di coloro che ne erano fruitori. Questa operazione risultava semplice e naturale agli Ateniesi del V sec. a.C. che, comprendevano le problematiche sviluppate dai tragici nella loro interezza, dal momento che, soprattutto nel caso di Eschilo, assistevano alla rappresentazione: una trilogia di drammi che affrontavano i vari aspetti e le diverse questioni poste da uno stesso mito. La frammentarietà e la parzialità della percezione dell'opera tragica è invece propria della visione di noi moderni a cui in genere non sono pervenute trilogie intere. Da qui la incompletezza del nostro approccio alla produzione tragica, nonché le difficoltà riscontrate non solo nel processo di attualizzazione di essa, quanto piuttosto, e soprattutto, nella comprensione del contenuto di alcune tragedie e, tra esse in particolare, del Prometeo Incatenato di Eschilo.

L'opera, composta tra il 479 ed il 475 a.C., si colloca all'indomani delle guerre persiane, cioè nella fase in cui, dopo lo sconvolgimento politico ed ideologico della Grecità arcaica prodotto dallo scontro tra Europa ed Asia, si cercavano nuovi i equilibri e soprattutto nuovi valori etici e religiosi. Non a caso riprendendo un mito già narrato da Esiodo, Eschilo nel Prometeo tratta il problema del difficile cammino della civiltà e della società umana. Esso è possibile grazie ad una adikia (furto del fuoco da parte del titano Prometeo) che è un chiaro gesto di ribellione alla, somma divinità. Zeus, ostile all'umanità e timorosa di perdere le proprie prerogative ed il potere. Questa punisce Prometeo, detentore, fra l'altro, del segreto che avrebbe permesso lo spodestamento dello stesso Zeus (segreto di Temi).

Non vogliamo qui addentrarci nelle spinose questioni di cui ancor oggi è oggetto il Prometeo; rileviamo soltanto che questa tragedia è stata spesso considerata in sé secondo canoni che affondano le loro radici nel Romanticismo e vedono in questa opera eschilea la rappresentazione della lotta titanica di Prometeo contro la divinità - tyrannos. Più correttamente si ritiene oggi che il Prometeo debba essere valutato all’interno della trilogia - per noi purtroppo perduta - dedicata da Eschilo alla vicenda del Titano. Attraverso essa il poeta si proponeva di offrire agli Ateniesi una visione secondo cui al regno della brutalità e della forza del dio che non perdona - non a caso Prometeo è incatenato da Kratos (Forza) e da Bia (Violenza) -,cui faceva da contraltare la ribellione del Titano ed, indirettamente, degli esseri umani, si sostituiva un ordine cosmico ispirato alla giustizia (Dike) ed all'amore verso gli uomini (philanthopia) da parte della divinità. Di tale nuova taxis (ordinamento cosmico), realizzato mediante il furto del fuoco, la punizione e l'espiazione di Prometeo, era segno del mito la liberazione del Titano, della quale Eschilo probabilmente trattava nel dramma conclusivo della trilogia; nella I realtà ateniese del V sec. a.C. rappresentava testimonianza tangibile della eukosmia il culto di Prometeo.

Questi infatti era onorato accanto ad Atena ed Efesto come dio philantropos portatore di civiltà in quanto pyrphoros (latore del fuoco agli uomini).

Il Prometeo quindi non può essere inteso unicamente come il dramma della ribellione titanica verso la divinità tirannica e, genericamente, verso ogni potere dispotico, quanto piuttosto va interpretato come una riconsiderazione in ambito tragico della tappa fondamentale del cammino che, pur lungo e difficoltoso, attraverso le sofferenze del Prometeo, ha condotto non solo allo stabilirsi della eukosmia e della taxis nell'universo, ma, di riflesso, alla nascita della società umana ed al possesso da parte degli uomini della techne. Del resto una lettura in tal senso dell'opera eschilea sembra essere suggerita anche da Protagora. Il sofista, pochi anni dopo Eschilo, in età periclea, nel riconsiderare la vicenda del Titano, metteva in evidenza non la ribellione di Prometeo nei confronti di Zeus, ma il fatto che essa aveva permesso agli uomini di acquistare la entechnos sophia (sapere delle arti), in seguito alla quale Zeus aveva inviato nella società Aidos e Dike (Rispetto e Giustizia). Sotto la sorveglianza di queste divinità gli esseri umani avevano appreso l'arte della convivenza non solo tra simili, ma anche tra uomini e divinità.

In definitiva, la modernità del Prometeo Incatenato - e forse dell'intera trilogia, per noi perduta, dedicata da Eschilo alla vicenda del Titano - consiste proprio nella rappresentazione del cammino faticoso che ha portato alla conquista della armonia che legava polis e kosmos, uomini e dei. Essa risultava perspicua agli Ateniesi del V sec. a.C. nella rappresentazione del mito del furto del fuoco, non atto ribellistico fine a se stesso, ma mezzo e momento imprescindibile per la nascita di un ordine nell'universo, della convivenza sociale, nonché di un rapporto filantropico tra divinità ed esseri umani.