Donne contro la mafia

da Mafia, album di "Cosa Nostra" a cura di F. Cavallaro

l di là delle vane posizioni assunte da tanti gruppi ecclesiali, una diversa scelta della Chiesa ufficiale, però, avrebbe potuto accelerare, soprattutto nelle borgate e nei paesi a più alto rischio, il fenomeno delle denunce, delle dissociazioni, delle collaborazioni espresse all'interno del pianeta mafioso dalla parte apparentemente più debole, la donna. Sciascia definiva il matriarcato siciliano un elemento frenante nella storia dell'isola, una componente conservatrice in grado di scoraggiare il popolo nella sua corsa verso il nuovo, sostanziale ostacolo alla scoperta di nuovi mondi, al confronto con nuove culture. La donna nella famiglia mafiosa ha confermato questa immagine. Le eccezioni però non mancano e, sempre più frequenti, spiccano forti, clamorose, talvolta con conseguenze devastanti. E' il caso della storia di Francesco Marino Mannoia, il pentito forse ancora più prezioso di Tommaso Buscetta, se non altro perché le sue rivelazioni squarciano un velo sui misteri della fine degli anni Ottanta. La sua conversione forse non ci sarebbe stata, come ha rivelato Giovanni Falcone, se non si fosse imposta con forza la figura di Rita, la compagna della sua vita, e del suo percorso di pentito.

Se Marino Mannoia non avesse lasciato la prima moglie, figlia del boss Pietro Vernengo, e non avesse incontrato questa donna forte e coraggiosa, pronta a seguirlo nella nuova vita segreta confezionata per loro dall'Anticrimine italiano e dai "marshall" americani, difficilmente sarebbe diventato un collaboratore della giustizia. Come avrebbe potuto farlo restando accanto a Rosa Vernengo, figlia del capomafia sfuggito agli arresti ospedalieri e riacciuffato, sempre a Palermo, nel marzo '92 in una casa ricavata all'interno di un cantiere navale di sua proprietà?

Quella delle donne vicine a Marino Mannoia è una storia drammatica perché, proprio quando lascia Rosa Vernengo e si pente confortato da Rita, un commando di uomini del disonore compie il più semplice e vile dei massacri appostandosi in una strada semibuia di Bagheria per uccidere tre bersagli immobili, tre donne sedute su un'auto, la madre la sorella e una zia dello stesso Marino Mannoia.

Come nelle guerre fratricide della Jugoslavia o nelle faide mediorientali, la violenza non risparmia donne e bambini che troviamo spesso nelle cronache di mafia come vittime o come soldati.

Il paese che ha arruolato le donne come corrieri della droga è Torretta, il piccolo centro dei monti vicini al mare di Punta Raisi, approdo di una indagine poi confluita nel processo "Iron Tower", appunto "Torre di ferro".

Prima degli anni Ottanta le donne si limitavano a dare consigli, spesso cattivi, ai loro uomini. Poi assumono un chiaro ruolo di complici o di "mafiose", come sostiene un rapporto della Mobile su sette agguerrite eroine di Cosa Nostra come Anna Vitale, la cognata di Gerlando Alberti, al quale consentì di trasformare una villa di Trabia in una raffineria. Nel processo ai costruttori Spadola spicca invece una cantante che non ebbe molta fortuna, Esmeralda Ferrara, le sue casse di dischi volavano sulla rotta Palermo-Milano piene di droga. A Bagheria un ruolo chiave fu attribuito a Epifania Lo Presti e Francesca Battaglia, parenti di boss di primo piano. A Palermo le luci si accesero su Anna Maria Di Bartolo, moglie di un costruttore allora ritenuto vicino alle cosche, Domenico Federico. Il rapporto riguarda pure Francesca Citarda, figlia di Matteo, imputato al processo dei 114 e moglie del boss Giovanni Bontade, entrambi assassinati nella loro casa di Villagrazia. Accanto alla Citarda anche Rosa Bontade, moglie di Giacomo Vitale, un impiegato dell'Ente minerario siciliano coinvolto nel falso sequestro di Michele Sindona.

Ma questa è solo una parte della storia. Perché, come in uno specchio sfaccettato, basta spostarsi un po' per cogliere l'immagine opposta, ben sintetizzata nel capo canuto, nella faccia rugosa, negli occhi neri e mobilissimi di Serafina Battaglia, la donna che per prima infranse il muro dell'omertà perché decise di denunciare e perseguitare gli assassini del marito, Stefano Leale, e del figlio adottivo, Salvatore. Le avevano tolto tutto e donna Serafina decise di vendicarsi facendo giustizia come non si faceva mai, rivolgendosi alla giustizia. Insomma una rivoluzione culturale che la spinse come il vento verso un'aula di tribunale dove, implacabile, echeggiò il suo atto d'accusa baciando prima il crocifisso e recitando una sorta di giaculatoria: "I mafiosi sono pupi, fanno gli spavaldi solo con chi ha paura di loro ma se si ha il coraggio di attaccarli e demolirli diventano vigliacchi. Non sono uomini d'onore ma pezze da piedi". Il marito e il figlio le raccontavano tutto. E lei svelò tutto incastrando trenta mafiosi coinvolti in ventiquattro omicidi, cambiando le regole della sua vita, cominciando a camminare armata, con una pistola nascosta fra reggiseno e sottoveste.

E si lanciò in un ragionamento che ancora oggi fa paura a Cosa Nostra: "Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo". Senza sapere chi è Serafina Battaglia, vent'anni dopo seguirà le sue tracce Michela Buscemi, sorella e cognata di due ragazzi uccisi nel quartiere Brancaccio, finiti nella "camera della morte" dove i cadaveri venivano sciolti nell'acido. Quella volta non accadde perché mancava l'acido e quel che c'era "era di cattiva qualità". Di qui l'idea di un giro in barca con affondamento dei corpi senza vita assicurati a pesanti massi.

La Battaglia, a settant'anni, ricorda con tristezza quei processi di primo grado conclusi con condanne esemplari poi annullate nell'insufficienza di prove dei processi d'appello. Stavolta la Buscemi al maxiprocesso ha avuto giustizia e, nonostante incertezze e contraddizioni, gli assassini da lei indicati sono stati individuati e condannati. Lei non gira con la pistola ma affronta rischi e solitudine. Il marito e i tre figli le stanno vicini. Il resto dei parenti li ha perduti nel momento in cui ha cominciato a parlare nell'aula bunker dell'Ucciardone seduta fra i banchi della parte civile. Lei si limitava a chiedere giustizia per il fratello ucciso che l'ha sconfessata parlando ai giornalisti di "una figlia pazza". Una certa "pazzia" femminile sembra però un salutare virus pronto a diffondersi per contagio e, alla fine degli anni Ottanta, sulla scia di donna Serafina ecco venir fuori, accanto alla Buscemi, altre donne. Sono il frutto magico di una stagione della lotta alla mafia contraddistinta da lutti devastanti ma anche dalla speranza e da qualche importante successo giudiziario.

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