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La marina cartaginese

 

 La flotta era a Cartagine più utile dell’esercito, doveva quindi mantenersi integra e venire sempre modernizzata. Dalle barchette fenicie si formarono durante i primi secoli dalla fondazione di Cartagine, tipi di navi assai migliori e potenti. Non più navi scoperte, ma dotate di un ponte coperto e munito a prua all’altezza della linea di galleggiamento, di un rostro aguzzo. Questi nuovi modelli che i Greci chiamarono «diere» e i Romani «biremis» erano notevolmente veloci potendo sfruttare per ogni metro di lunghezza una forza muscolare maggiore. La velocità, da cinque a sei nodi aumentava naturalmente col vento favorevole. Sulle navi mercantili cartaginesi sappiamo meno che su quelle da guerra; dovevano tuttavia avere anch’esse dimensioni ragguardevoli. Queste navi erano governate da una grande vela rettangolare; le vele minori non servivano ad aumentare la velocità quanto ad accrescere l’ammanovrabilità.

Quando le navi abbisognavano di riparazioni, venivano portate nei bacini di carenaggio, altra invenzione fenicia. Così li descrive un antico scrittore:

«I Fenici scavavano una fossa sotto la  nave della stessa lunghezza di questa. Nella fossa mettevano solide fondamenta di pietra  e le coprivano di una serie di ceppi, che colmavano l’intera lunghezza della fossa lasciandosi sotto altro spazio. Da una chiusa immettevano quindi acqua marina nell’area scavata, sino a riempirla. Poi vi rimorchiavano la nave con l’aiuto di manovali. Sbarravano quindi la chiusa e pompavano fuori l’acqua. Fatto ciò, la nave poggiava sicura sui ceppi sopra menzionati». Dopodiché, i tecnici potevano accostarsi senza sforzo, da sotto, allo scafo.  

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Il nerbo della flotta da guerra carataginese era costituito da triremi e, soprattutto, quinqueremi, pesanti navi da battaglia lunghe una quarantina di metri (a), dotate di trenta remi su un unico ordine per ciascuna fiancata e di un pesante rostro per speronare il nemico (b). Ogni remo era azionato da cinque vogatori (trecento in tutto); il resto dell'equipaggio era composto da una cinquantina di ufficiali, marinai, soldati. 

Il senato romano, per potere competere con le squadre cartaginesi, fece allestire, dopo lo scoppio della prima guerra punica, un centinaio di quinqueremi la cui attrezzatura fu completata, nel 260 a.C., con i «corvi» che facilitavano l'abbordaggio delle navi avversarie (c). Per sfruttare meglio questo accorgimento i Romani imbarcarono più soldati, fino a cento unità, da impegnare nei corpo a corpo.

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La topografia della città punica, per difetto di sicure vestigia archeologiche, travolte dalla distruzione romana del 146 a.C:, ha dato luogo a molte diverse ipotesi, ed è quanto mai incerta, tanto più che le notizie tramandateci dagli scrittori non sono sempre chiare. Nella collina oggi detta di S. Luigi, che domina tutta la penisola, è con ogni verosimiglianza da riconoscere il nucleo primitivo della città, cui si riferirebbe il nome di Byrsa.

Attualmente sui luoghi dell’antica Cartagine sorge un sobborgo di Tunisi, costituito soprattutto da ville. Vi spiccano la grande cattedrale di S.Luigi in stile bizantino-moresco (1890), oggi sconsacrata e destinata a museo, e il Museo Nazionale di Cartagine, che raccoglie sarcofaghi, rilievi, amuleti e pietre tombali d’età punica e romana. L’acropoli sorgeva sul colle Byrsa: l’edificio più importante era il tempio di Eshmun. Tra l’acropoli e il mare correvano tre strade parallele e si apriva un ampio foro che costituisce l’unico elemento della città punica rimasto nella città romana, a riprova della totale distruzione a cui fu sottoposta la città da Scipione. Nel periodo più antico il lago di Tunisi ne dovette costituire il porto naturale, ma secondo un modello fenicio furono poi scavati nel terreno due grandi bacini tra loro collegati, uno rettangolare destinato al commercio e uno rotondo, militare, attorno al quale sorgevano gli edifici dell’arsenale. Accanto ai porti si innalzava il santuario (tophet) di Salammbo, nella cui area sono stati rinvenuti resti di sacrifici infantili e steli funerarie. Le mura forse costruite nel secolo IV a.C., seguivano le naturali difese nel terreno e non sono perciò indicative dell’ampiezza della città antica. Il tentativo di Caio Gracco di fondare una colonia a Cartagine ha lasciato tracce solo nella suddivisione dei campi (centuriazione) che a partire da Augusto, si sviluppò secondo un orientamento obliquo rispetto a quello precedente; secondo quest’ultima sono disposte invece le grandi cisterne rettangolari della Malga, esterne alla città. Sempre sotto Augusto, superati i pregiudizi religiosi, venne rioccupata la Birsa ed edificato il Capitolium. Adriano dotò la città di un acquedotto e di una cisterna; successivamente con Antonino Pio sorsero sul mare le terme, delle quali restano imponenti le rovine, con ambienti a pianta ottagonale disposti attorno a una sala quadrata (frigidarum) sostenuta da nove pilastri. Il circo e l’anfiteatro (oggi quasi completamente distrutto) erano fuori dell’abitato verso ovest. Fra i resti di arte punica spiccano i sarcofaghi in marmo che recano sul coperchio l’immagine del defunto. La Cartagine romana non ebbe bisogno di fortificazioni; fu soltanto nel 425 d.C. che Teodosio II ritenne opportuno circondarla di mura. 

Il trionfo del cristianesimo arricchì la città di numerose basiliche: ne furono alzate in memoria di Cipriano, dove questi aveva subito il martirio, e dove egli era stato sepolto, in onore di S.Monica e delle santi martiri Perpetua e Felicita. Incerta è l’identificazione di altre chiese; e incerto è altresì quale nome si debba dare al più insigne complesso monumentale cristiano di Cartagine, quello di Damous-el-Karita. E’ questo un vasto edificio a cui era attiguo un cimitero.

Degli innumerevoli mosaici pagani e cristiani, quello detto del dominus Iulius (sec. IV d.C.) riproduce un tipo di fattoria fortificata frequente nel grande latifondo africano. La prosperità agricola della provincia e il conseguente fiorire dei commerci favorirono il sorgere a Cartagine di una notevole attività manifatturiera i cui prodotti furono esportati in tutto il Mediterraneo.

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Difficile è non soltanto un giudizio sul valore della cultura cartaginese, ma anche una conoscenza esatta della natura di essa. Alla mancanza di una superstite tradizione indigena, alla scarsezza di materiale archeologico ed epigrafico si aggiunge la cattiva fama che la tradizione greca e romana ha diffuso intorno al carattere dei Cartaginesi.

La stessa metropoli punica ha risentito, in misura notevole, l’influsso ellenico. Sappiamo che la lingua e i costumi greci erano largamente diffusi nelle classi più elevate, specialmente nel periodo ellenistico; l’arte greca si intruse, fin da tempi molto remoti, nello stile composito di carattere orientalizzante che i Cartaginesi dovettero recare dalla madrepatria fenicia. L’intensità dei rapporti tra Cartagine e il mondo ellenistico è attestata dal fatto che Annibale fu autore di scritti di strategia in lingua greca, e che la costituzione cartaginese è fatta oggetto di studio e di raffronto con quella delle città greche da Aristotele e dalla sua scuola. Tanto nel suo aspetto esterno quanto nella sua vita spirituale, Cartagine conservò il suo aspetto fenicio, modificato da infiltrazioni di costumi africani. La lingua e la scrittura fenicia mantennero quasi inalterati i loro caratteri: le vesti lunghe, la barba a punta, l’uso dell’anello nasale rivelano un’impronta schiettamente orientale.

A Cartagine dovette fiorire una ricca letteratura, come si ritrae dalla famosa notizia di Plinio intorno alle biblioteche trovatevi dai Romani nel 146 a.C., nonché dalla menzione di opere storiche, geografiche e scientifiche puniche a cui attinse Timeo. Le iscrizioni indigene per quanto siano brevi, dimostrano che ortografia, lingua e stile erano disciplinati da una tradizione stabilita. E non è da escludersi che altre forme letterarie, di carattere religioso e poetico, possano essere esistite e siano perite.

La distruzione totale di Cartagine non consente di giudicare intorno al carattere dell’architettura cartaginese. Ma qualche accenno di scrittori è sufficiente a mostrare che le influenze greche furono soltanto superficiali, e che lo stile fenicio continuò a dominare per l’intero periodo dell’indipendenza cartaginese.